La rete di protezione

Da il "Corriere della Sera" del 5 Maggio 2002, di Sparvoli Antonella

Corriere della SeraLe strategie oggi disponibili per eliminare eventuali ostruzioni dalle arterie coronarie, causate dalla malattia aterosclerotica, sono diverse. La più nota e diffusa è senza dubbio l' angioplastica, la tecnica che prevede l' inserimento, tramite un catetere radio-guidato, di un "palloncino" nella coronaria ostruita. A tale dispositivo viene ormai quasi sempre associato l' impianto di uno stent, cioè di una piccola rete metallica di forma cilindrica che viene inserita nel punto ostruito per contribuire alla tenuta della parete della coronaria dopo che è stata riallargata. Anche se questo approccio dà risultati molto soddisfacenti, nel 20-25 per cento dei casi si può verificare la cosiddetta ristenosi coronarica, ossia la ricomparsa di un restringimento in un' arteria coronarica alcuni mesi dopo che quest' ultima è stata dilatata con successo. Per contrastare fenomeno il fenomeno della ristenosi coronarica è da poco disponibile una arma in più: i primi stent a rilascio di farmaco, altrimenti detti "medicati". Questi dispositivi dal 15 aprile scorso sono stati approvati e sono quindi entrati in commercio in Europa per l' utilizzo clinico. ANGIOPLASTICA CON GLI "STENT MEDICATI" ORA SI PUO' GARANTIRE UN RISULTATO PIU' DUREVOLE AI MALATI CHE SONO STATI OPERATI COL "PALLONCINO" PER RIAPRIRE LE ARTERIE DEL CUORE L' introduzione degli stent medicati, cioè ricoperti di un farmaco che può diffondere nella parete dell' arteria coronarica, darà probabilmente il via a una nuova era nella prevenzione della ristenosi. Ma che cos' è esattamente l' angioplastica e perché è utile associarla all' applicazione di uno stent? «L' angioplastica è una tecnica non chirurgica grazie alla quale si può eliminare l' ostruzione o il restringimento di un' arteria coronaria, introducendo nella zona di interesse un catetere munito di palloncino che viene gonfiato e sgonfiato più volte in modo da comprimere la placca responsabile del blocco e riaprire l' arteria - spiega il professor Antonio Bartorelli, direttore dell' Unità Operativa di cardiologia invasiva e intervenzionale del Centro cardiologico Monzino di Milano. «Sebbene questa procedura permetta di ottenere risultati immediati positivi nella maggioranza dei pazienti, in circa il 40 per cento dei casi l' arteria dilatata va incontro a un nuovo restringimento nei sei mesi successivi. Questo fenomeno (ristenosi) è dovuto in parte al fatto che le coronarie sono elastiche e tendono quindi a ritornare al loro diametro originario, ma soprattutto, al cosiddetto rimodellamento negativo». «In pratica, - spiega Bartorelli - il trauma subito dal vaso in seguito al gonfiaggio del palloncino e la rottura della placca stimolano un lento processo cicatriziale che può causare un progressivo restringimento della coronaria. Ed è proprio per ridurre la ristenosi che sono stati messi a punto gli stent. Queste endoprotesi vascolari forniscono un supporto meccanico all' arteria e si oppongono efficacemente a questi due fenomeni». Proliferazione Tuttavia, lo stent ha amplificato un altro fenomeno biologico: la proliferazione delle cellule sulla parte coronarica. Questo evento giocava un ruolo abbastanza modesto nella ristenosi dopo angioplastica semplice ed è, invece, la causa principale di ristenosi dopo impianto di stent, che ha un' incidenza valutabile intorno al 20-25 per cento. «Per contrastare la formazione di nuovo tessuto all' interno dello stent, e quindi la ristenosi, sono stati provate diverse strategie» continua Bartorelli, «tra cui la brachiterapia, che prevede l' uso di radiazioni per bloccare la proliferazione cellulare. Questa tecnica viene però applicata in chi ha già sviluppato ristenosi dopo impianto di stent». Rilascio prolungato Si è, quindi, provato, nella metà degli anni ' 90, a somministrare localmente, con particolari cateteri, sostanze in grado di prevenire la proliferazione. «Questo approccio ha aperto la strada al concetto dello stent medicato» riferisce Bartorelli. «Gli stent medicati sono in grado di rilasciare il farmaco di cui sono rivestiti per 20-30 giorni, contrastando il processo di proliferazione proprio nel periodo più critico». Nella maggior parte dei casi, i farmaci utilizzati per rivestire gli stent sono agenti antiproliferativi già noti, come la rapamicina, utilizzata da anni per la prevenzione del rigetto nei trapiantati di rene, o i derivati del taxolo, farmaco antitumorale. «Gli studi clinici condotti fino ad ora hanno portato conferme cliniche del nuovo concetto e della permanenza degli effetti positivi a medio e lungo termine - dice lo specialista-. Tuttavia, i dati disponibili derivano da ricerche preliminari di piccole dimensioni in cui sono state prese in considerazione lesioni semplici, a basso rischio di ristenosi. Sono attualmente in corso studi di maggiori dimensioni che consentiranno di valutare efficacia e sicurezza degli stent medicati anche in condizioni cliniche e in lesioni coronariche più complesse». Nonostante gli entusiasmi che circondano il recente ingresso nell' uso clinico degli stent medicati, un po' di cautela appare necessaria. «I dati molto positivi in termini di sicurezza e prevenzione della ristenosi ottenuti dal primo studio con stent ricoperto di rapamicina sono stati confermati a due anni dall' impianto del dispositivo - puntualizza Bartorelli -. Ciò nonostante, nell' attesa di ulteriori dati provenienti dagli studi attualmente in corso, in un elevato numero di pazienti, e dal prolungamento del follow-up di quelli già conclusi, sarà di fondamentale importanza mantenere un' attenta e prolungata sorveglianza clinica di ogni paziente che, a partire dal mese di aprile 2002, verrà trattato nei diversi laboratori di cateterismo cardiaco europei. Problemi che restano ancora aperti riguardano le indicazioni all' utilizzo degli stent medicati nelle varie condizioni cliniche e nelle diverse anatomie coronariche e l' aumento della spesa sanitaria legata al loro elevato costo».

Nuovi dispositivi e soluzioni per piccoli vasi coronarici:  Quello della ristenosi è un fenomeno che diventa ancora più difficile da contrastare quando si ha a che fare con lesioni in coronarie di piccolo calibro, di diametro inferiore ai tre millimetri. Gli studi condotti finora hanno, infatti, dimostrato che i risultati delle tecniche di angioplastica in coronarie piccole sono meno favorevoli, anche dopo impianto di stent. «Per cercare di migliorare i risultati», spiega Maurizio Di Biasi, Responsabile del Laboratorio di Cardiologia Interventistica del Policlinico Multimedica di Milano, «abbiamo condotto uno studio per valutare l' utilità dei cosiddetti stent "dedicati", che hanno caratteristiche particolari rispetto a quelli tradizionali». Nello studio sono stati presi in esame 151 pazienti sottoposti a impianto di stent in coronarie di diametro inferiore ai 2,6 millimetri: 64 individui sono stati trattati con stent dedicati, ossia con caratteristiche di flessibilità e spessore che dovrebbero renderli più adatti a vasi di piccolo calibro, e i rimanenti con stent convenzionali. «Dopo sei mesi dal posizionamento dello stent, abbiamo rilevato che l' incidenza della ristenosi è risultata inferiore nei pazienti trattati con gli stent dedicati. Il prossimo passo che ci accingiamo a fare è quello di testare, anche in vasi molto piccoli, stent ricoperti da farmaci. Quando si riapre una coronaria solo con il "palloncino" si ha il 40 per cento di probabilità che si richiuda entro sei mesi. Se al palloncino si aggiunge la "rete", cioè lo stent, il rischio si riduce parecchio. Se poi lo stent è in grado di rilasciare un farmaco "anti-chiusura" i risultati migliorano ancora
Infarto Miocardico Acuto: le tappe del trattamento: ecco come si procede oggi in caso di infarto. Per ridare vita a un cuore sofferente a causa di un infarto si hanno oggi a disposizione diverse strategie: da potenti farmaci in grado di sciogliere e distruggere il coagulo (il trombo) di sangue che nella maggior parte dei casi è la causa primaria dell' evento, a terapie più complesse come il by-pass. Ma che cosa accade esattamente al paziente che giunge al pronto soccorso con un dolore toracico sospetto? Vediamolo con l' aiuto del dottor Maurizio Di Biasi. Quando un paziente giunge in ospedale con un dolore toracico, lo si sottopone subito a un prelievo di sangue e viene eseguito un elettrocardiogramma. Il cardiologo valuta, quindi, i risultati di queste analisi e se il sospetto di infarto è confermato procede con la terapia. Da questo momento, come hanno chiaramente dimostrato numerosi studi clinici, è fondamentale la rapidità di esecuzione di una delle terapie indicate nei punti che seguono. Trombolisi Nelle strutture piccole dove non è possibile effettuare l' angioplastica, il paziente infartuato, se le sue condizioni lo permettono, viene sottoposto a una terapia farmacologica con farmaci trombolitici, in grado di sciogliere il trombo che causa l' occlusione dell' arteria. Si tratta di medicinali molto potenti che possono comportare il rischio di emorragia e per questo vengono somministrati sotto stretto controllo. Angioplastica Se il paziente infartuato viene condotto o trasferito d' urgenza in un centro dotato di sala di emodinamica e di sala operatoria di cardiochirurgia, la strategia terapeutica d' elezione è rappresentata dall' angioplastica, seguita dal posizionamento di stent. La durata media di questo intervento, che viene eseguito in anestesia locale, è di circa 45 minuti. Dopo essere stato sottoposto ad angioplastica, la degenza media è di quattro giorni e il paziente dovrà seguire un trattamento con due farmaci antiaggreganti, uno dei quali solo per i 30 giorni successivi all' intervento. By-pass chirurgico Quando, per le più diverse ragioni, il paziente non può essere sottoposto all' angioplastica, si procede con l' intervento di by-pass, in cui per aggirare la coronaria occlusa si costruisce, utilizzando un' arteria mammaria, radiale o vene, un raccordo tra la coronaria e l' aorta. Questo intervento viene eseguito in anestesia totale e dura, in genere, dalle due alle quattro ore.

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